Recensione. L’isola degli alberi scomparsi

Sinossi ufficiale

Nata e cresciuta a Londra, Ada Kazantzakis, sedici anni, non sa niente del passato dei suoi genitori. Non sa che suo padre Kostas, greco e cristiano, e sua madre Defne, turca e musulmana, negli anni Settanta erano due adolescenti in quell’isola favolosa di acque turchine e profumo di gardenie chiamata Cipro. Non sa che i due si vedevano di nascosto in una taverna di Nicosia, dalle cui travi annerite pendevano ghirlande d’aglio e peperoncini. Non sa che al centro di quella taverna, testimone dei loro incontri amorosi, svettava un albero di fico. E non sa che l’albero, con le fronde che uscivano da un buco sul tetto, era lì anche quando l’eterno conflitto dell’isola, spaccata in due lungo la «linea verde», si era fatto più sanguinoso e i due ragazzini non erano più venuti. Ora quello stesso albero, nato da una talea trafugata anni prima a Londra, cresce nel giardino dietro la casa di Ada: unico, misterioso legame con una terra dilaniata e sconosciuta, con quelle radici inesplorate che, cercando di districare un tempo lunghissimo fatto di segreti, violente separazioni e ombrosità, lei ha bisogno di trovare e toccare. Pulsano, in questo libro spalancato sulla distruzione e gli esili provocati dalla guerra, colori luminosi e profumi d’erbe e olive nere; il battere delle ali di uccelli di ogni piumaggio; il canto ininterrotto delle fronde di un albero; il respiro sano di un amore e quello fiero della vita.

Recensione

“Gli alberi sono custodi della memoria. Aggrovigliati sotto le nostre radici, celati nei nostri tronchi, ci sono i tendini della storia, le rovine di conflitti che nessuno è riuscito a vincere, le ossa dei dispersi.”

Ada la protagonista ha un dono: “intuiva le pene del prossimo, allo stesso modo in cui un animale fiuta un simile a chilometri di distanza.” E’ grazie questo dono che riesce a capire la sofferenza per esempio di un compagno di classe che viene picchiato del padre o che riesce sentire ciò che prova la pianta di fico mentre suo padre la sotterra nel loro giardino per proteggerlo dal freddo. A questo punto entra in scena proprio la pianta di fico che i genitori di Ada hanno portato da Cipro quando sono emigrati in Gran Bretagna: è lei che parla in prima persona nei capitoli che si alternano a quelli che descrivono e raccontano la vita di Ada e del padre, è lei che ci mostra tutti i suoi pensieri, che mette a nudo le sue paure e i suoi desideri, che dichiara di essere innamorata di Kostas, il padre di Ada e che dimostra di avere una sensibilità eccezionale, molto più profonda di quella di tanti esseri umani

“Gli esseri umani ci passano davanti tutti i giorni, si siedono e dormono, fumano e mangiano alla nostra ombra, ci strappano le foglie e si ingozzano con i nostri frutti, ci spezzano i rami cavalcandoli da bambini oppure usandoli come sferze per soggiogare il prossimo quando diventano più grandi e più crudeli, ci incidono il nome dell’innamorata sul tronco per giurarle amore eterno, intrecciano collanine con i nostri aghi e mutano i nostri fiori in opere d’arte, ci tagliano a ciocchi per scaldarsi casa e talvolta ci abbattono solo perché gli ostruiamo la vista; fanno di noi culle e turaccioli, gomma da masticare e mobili rustici, traggono da noi musica incantevole e ci trasformano in libri nei quali si perdono nelle fredde sere d’inverno, usano il nostro legno per fabbricare le bare in cui terminano i loro giorni, tre metri sottoterra insieme a noi, e addirittura compongono per noi poesie romantiche, affermando che siamo l’anello di congiunzione fra la terra e il cielo, eppure continuano a non vederci.”

Dalla sua voce scopriamo tutte le proprietà e le cose che le piante possono fare, come avvertire di un pericolo i loro simili, percepire la luce e i colori e poi impariamo che il fico è una pianta sacra, luogo di incontro di esseri umani, animali, creature di luce e ombra.

Ada e il padre condividono un grandissimo dolore per la morte della madre ma non riescono a comunicare. Ada sente soprattutto il peso del passato della sua famiglia su di se ‘, un passato del quale ignora molto aspetti, la situazione di vuoto divisa tra Nord e Sud ma sopratutto la storia di Defne e Kostas, lei turca e musulmana, lui greco e cristiano, innamoratisi contro ogni separazione e ogni logica, di un amore abissale e profondo, pronto a sfidare tutto e tutti.

La storia è delicata e struggente e a tenerla tale è proprio la voce della pianta di fico, saggia e antica, che aggiunge alla narrazione un tocco magico fino al finale sorprendente.

Unico neo: la storia verso il finale è un po’ frettolosa, avrei preferito un maggior approfondimento della morte di Defne.

Estratti

“Io me la ricordo così: spiagge dorate, acque turchine, cieli tersi. Le tartarughe venivano a riva ogni anno per deporre le uova nella sabbia finissima. Il vento del tardo pomeriggio si portava dietro un profumo di gardenie, ciclamini, lavanda, caprifoglio. Rami di glicine si arrampicavano come funi su muri imbiancati, con l’ambizione di toccare le nuvole e la speranza che solo i sognatori possiedono. Quando la notte ti baciava la pelle, e lo faceva sempre, le sentivi il gelsomino nell’alito. La luna, che qui è più vicina alla Terra, si accendeva leggera e luminosa sui tetti, gettando un bagliore intenso sui vicoli angusti e l’acciottolato delle vie. Eppure le ombre trovavano il modo d’insinuarsi nella luce; sussurri di diffidenza e congiura s’increspavano nel buio. Perché l’isola era spaccata in due parti: il Nord e il Sud. In ciascuna prevaleva una diversa lingua, una diversa scrittura e una diversa memoria, e quando pregavano, di rado gli isolani pregavano lo stesso dio.”

“Se le famiglie, come si dice, sono come le piante, strutture arborescenti con radici intricate e singoli rami che sporgono ad angolazioni sgraziate, i traumi famigliari sono come la spessa resina trasparente che gocciola dai tagli nella corteccia: colano per generazioni.

Trasudano pian piano, in un flusso così lento da essere impercettibile, e avanzano nello spazio e nel tempo fino a trovare un anfratto in cui fermarsi e coagulare. Il percorso di un trauma ereditario è casuale; a qualcuno toccherà, ma non si sa mai a chi. Tra i figli che crescono sotto lo stesso tetto, alcuni ne sono colpiti più di altri: sarà capitato anche a voi di conoscere due fratelli che hanno avuto all’incirca le stesse occasioni, eppure uno è più malinconico e introverso dell’altro, no? Succede. Alle volte i traumi famigliari saltano a piè pari una generazione e raddoppiano la presa sulla successiva. Esistono nipoti cui gravano in silenzio sulle spalle il dolore e la sofferenza dei nonni.”

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