Recensione. La sartoria di via Chiatamone

Marinella Savino

Nutrimenti edizioni

Pagine 170

Prezzo

Sinossi ufficiale

È il 5 maggio del 1938. I vicoli di Napoli sono gremiti di curiosi. In piazza del Plebiscito sventolano maestosi stendardi nazisti. Una folla elettrizzata attende l’arrivo della berlina reale su cui viaggia Hitler. Tra file di braccia sollevate in saluto romano e grida entusiastiche, Carolina è la sola a scorgere nella solennità di quella parata il preludio della catastrofe. Abile sarta, ricca d’inventiva, non indugia un secondo: un irriducibile attaccamento alla vita e un connaturato senso di libertà la guidano nell’obiettivo di proteggere quanto più possibile i suoi cari dalla fame e dalla devastazione preconizzate. Allora cuce, giorno e notte, e accumula con perseveranza, lira su lira, per comprare e stipare nella sua cantina immani quantità d’ogni genere commestibile. La sartoria, insieme alla cantina, si erge così ad arca della salvezza per la famiglia e gli amici che Carolina, non senza innumerevoli difficoltà, ospiterà sotto il suo tetto lungo gli estenuanti anni di guerra, fino alle quattro giornate di Napoli. Un racconto in cui, come in un film, si intrecciano storia universale e personale, in una vicenda resa vivida dalla commistione sapiente di italiano e dialetto.

Recensione

Ho amato questo libro dalla prima all’ultima pagina. Lo stile avvolgente e caldo dell’autrice, le figure che ha delineato, la Napoli degli anni ‘40 del secolo scorso, il dialetto partenopeo: tutto contribuisce a fare di questo libro una delle migliori letture di quest’anno.

Come si fa a non innamorarsi di Carolina? Questa donna è una forza della natura: intuisce la guerra in tempi non sospetti, accumula cibo come se non ci fosse un domani per sfamare la sua numerosa famiglia e tutti gli amici e conoscenti che popolano ogni giorno la sua casa, sempre affollata e molto simile ad un porto di mare, e’ scaltra, forte, determinata, una lavoratrice indefessa, orgogliosa e intraprendente. La casa va avanti grazie a lei, anche il marito ha un’attività ma quella che porta i pantaloni in casa è Carolina, e’ lei il vero capo!

A volte può sembrare burbera, fredda e un po’ rigida, ma ha un cuore grandissimo in cui c’è posto per una città intera. Ha sempre una parola giusta per ogni situazione e riesce a convincere il marito e a portarlo dalla sua parte con degli stratagemmi molto sottili. Le sue mani sono magiche e realizzano ciò che nessun’altra sarta napoletana può neanche immaginare. L’unico grande difetto che le si può attribuire è la mancanza di pazienza, ma d’altra parte nessuno è perfetto!

Mi ha ricordato molto Mazzaro’, il protagonista della novella La roba di Verga, che accumulava poderi, mandrie e stalle come se non ci fosse un domani, ma mentre quest’ultimo aveva sacrificato i sentimenti al suo amore sconfinato per il patrimonio, Carolina ha sempre in mente il bene della sua famiglia, che comprende anche quelle delle sorelle e le sue lavoranti.

L’altra grande protagonista del libro è la città di Napoli, colpita dai bombardamenti, inondata dagli sfollati, con i rifugi nel suo ventre. Una città ferita che si piega ma non si spezza, che resiste e che è pronta a riprendersi dopo la fine della guerra.

Le incursioni aeree, dal gennaio del ’43 divennero pressoché giornaliere. La città si riempì di rifugi antiaerei. La maggior parte furono ricavati nel ventre di Napoli, vuota da sempre, anche sottoterra. Le stazioni della metropolitana, quelle delle funicolari, le gallerie. Anche i tunnel cittadini divennero posti per andare a rifugiarsi durante i bombardamenti. Si restava lì per ore, anche perché, dopo i bombardamenti, s’era inaugurato un nuovo terrore: gli aerei scendevano a bassa quota e mitragliavano le persone inermi che fuggivano per le strade.

Un libro straordinario, sfortunatamente poco conosciuto ma che merita tutta l’attenzione di lettori pronti a farsi conquistare dalla sua prosa calda e coinvolgente

Estratti

La dichiarazione di guerra al mondo non la fece Hitler, invadendo la Polonia. La fece Carolina, quando si convinse che una guerra ci sarebbe stata e lei doveva attaccare prima ancora di tutti gli altri, per difendersi e difendere la sua famiglia. Lo capì senza ombra di dubbio il 5 maggio del ’38, quando vide sfilare Hitler per via Partenope. Era un giovedì. Una pompa senza precedenti.

Carolina non era bella. Era un tipo, si direbbe oggi. Un tipo decisamente non facile, turbolento, indocile. Renitente a qualsiasi costrizione da sempre. Di modi spicciativi, poco incline alla dolcezza e refrattaria alle buone maniere. Temperamento, a tratti, davvero terribile, nascosto, senza volere, da un’apparenza delicata e indifesa. Bionda, con gli occhi azzurri disegnati su un viso diafano. Occhi vispi, non sciacquati, agitati come un mare incazzato. Non era alta, era corta. Tanto che, quando le chiesero quanto fosse alta, quella volta che andò, con le foto strette in mano, al municipio, a farsi la prima carta d’identità, aveva risposto, stupita: “Ma chi, i’? Nun so’ mai stat’ àuta int’ a tutt’ ’a vita mia!”. Oggi si direbbe che era minuta. Lei diceva che era corta. Qualcun altro le diceva che era cort’ e mal’ ’ncavat, che poi voleva dire che era piccola e, per giunta, venuta su con un brutto carattere, testarda. E lei, a quelli là, se stava calma, li guardava storto, se no, li mandava direttamente a farsi un giro in qualche altro paese, con dovizia di male parole. Arturo era l’opposto di Carolina. Un metro e ottanta di buone maniere e cultura. Portamento elegante, capelli neri come la pece, bello. Riservato e gentile, un uomo affabile e fuori dal tempo. Aveva interrotto gli studi d’ingegneria all’università quando, morto suo padre, si era trovato, insieme con i suoi fratelli, un’impresa di costruzione troppo grande tra le mani. Le cose in azienda tiravano parecchio bene per lasciare andare tutto in malora, e non erano tempi, quelli, per colpi di testa o per fare regali alla malora. Di studiare, Carolina non ne aveva voluto sapere. Non che fosse scema, anzi, era dotata, come dicevano le maestre di allora e pure di oggi. Era dotata, ma non si applicava, o per meglio dire, non si applicava al banco. Non la si poteva tenere ferma nemmeno a legarla.

Ma la fame… Quella, Carolina se la ricordava, eccome. Ogni volta che ci pensava, alla fame, le veniva in mente e in bocca e nello stomaco. Come un soffio che non ti fa capire niente e che ti entra su, insieme all’aria che respiri, e ti s’infila nella testa e, poi, ti scende fino allo stomaco. Aria. Aria vuota. Che la fame è quella. Aria vuota nello stomaco, nella testa, e la bocca che non sa cosa fare. Non saper cosa fare per far smettere quella fame. Non saper cosa fare.

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