
Per molto tempo, nel suo stesso paese, Norah Lange è stata conosciuta solo come «la musa degli ultraisti» e «la donna che ha spezzato il cuore a Borges» (avendo sposato il suo antagonista letterario dell’epoca, Oliverio Girondo). Ma, come dimostra questo libro, era molto di più: la Lange possiede infatti il dono di una voce inconfondibile. Tutto comincia la notte in cui un fulmine squarcia il buio di una calle di Buenos Aires e un’adolescente intravede, nel salotto della casa di fronte alla sua, «tre ombre sottili e pensierose». Da quel momento la ragazza non smetterà più di spiare le enigmatiche presenze, ossessionata dal desiderio di appropriarsene e dal terrore di perderle, finché non riuscirà a sedersi anche lei in quel salotto, dove tornerà ogni giorno, perché tutto, accanto alle tre donne, acquista «un senso di rottura, di feroce oblio…». Inventa loro una vita, le ama e le odia, desidera vederle morte – una, in particolare, che deve aver commesso qualcosa di terribile… In questa ipnotica seduta di voyeurismo (o di spiritismo?) il lettore rimane intrappolato sin dalla prima pagina, e fino all’ultima non potrà sottrarsene.

Le lezioni di fisica di Feynman sono ormai leggendarie per la loro perspicuità ed efficacia. Quelle che qui presentiamo sono le prime (saranno seguite da Sei pezzi meno facili) e partono da zero. Nel primo «pezzo», dopo una breve introduzione ai metodi e al significato della ricerca – tre paginette che valgono intere biblioteche di testi epistemologici –, si dice di che cos’è fatta la materia che cade sotto i nostri sensi: atomi in moto. Nel secondo si spiega che non tutto è così limpido come sembra, e che nella materia c’è anche dell’altro: il mondo quantistico e i suoi paradossi. Senza addentrarsi in una ricostruzione storica, Feynman riesce tuttavia a darci il senso dell’evolversi della fisica nel secolo appena trascorso, mettendone in luce i legami con le altre scienze. Gli ultimi tre saggi selezionano altrettanti capisaldi (energia, gravitazione, la realtà quantistica), presentati a livelli di complessità crescente: a ogni lettura cade una buccia della magica cipolla e si apre un nuovo, affascinante scenario. Chi prevedesse di naufragare su un’isola deserta, e volesse esser certo di avere con sé l’essenziale di quel che sappiamo sul mondo fisico, potrà mettere nello zaino i Sei pezzi facili.

A un uditorio che si presume esilarato un Feynman in forma smagliante lancia le sue provocazioni intellettuali, spiegando col suo stile immediato e antiretorico in che consiste il metodo scientifico; mostrando, ad esempio, come sovente un’ipotesi da «quasi certamente» falsa possa diventare «quasi certamente» vera. O viceversa. Nel «quasi» è il succo di tutto il suo argomentare, un misto accattivante di vera-falsa ingenuità e di spietata astuzia analitica che lo porta a vagabondare al di fuori della fisica, nelle regioni di confine, dall’etica alla religione alla politica, a chiedersi il perché delle cose, della vita, di tutto, mosso da una curiosità insopprimibile, fanciullesca.

Chiunque si sia appisolato a teatro o durante un concerto – sostiene Flaiano – sa bene che è nel passaggio dalla veglia al sonno che «la rappresentazione o la melodia o il dialogo si liberano da ogni scoria»: in quei brevi istanti, insomma, si ha «lo spettatore perfetto». In realtà, nella sua lunga attività di critico teatrale, Flaiano è stato uno spettatore tutt’altro che ‘addormentato’: appassionato, semmai, vigile e sferzante. Come quando irride il repertorio blandamente ameno ed ‘evasionista’ dei primi anni Quaranta, denso «di buoni sentimenti, di gioia di vivere e di grossi stipendi», e così rispondente ai desideri del pubblico che – profetizza – «non è lontano il giorno in cui le commedie, all’Eliseo, sarà lo stesso pubblico a scriverle e a rappresentarle». E nel 1943 scriverà veemente: «Amo Shakespeare, Calderón, Molière che hanno lasciato centinaia di opere tuttora vive ma ammiro quei loro spettatori che pretesero opere tanto perfette con il loro enorme e sapiente appetito». Il fatto è che in un Paese dove è lecito essere anticonformisti solo «nel modo giusto, approvato», Flaiano è riuscito a esserlo sino in fondo, caparbiamente: che recensisse la Salomè di Carmelo Bene, il Marat-Sade messo in scena da Peter Brook o Ciao Rudy di Garinei e Giovannini. Senza mai dimenticare la vocazione satirica: dalla Piovana di Ruzzante a una rivista musicale di Terzoli e Zapponi, ogni spettacolo è un’occasione per appuntare il suo sguardo micidiale sulla nostra società, dove «l’uomo medio sente molto il ridicolo degli altri e pochissimo il ridicolo di se stesso», e «la mediocrità di un personaggio, purché largamente diffusa, suscita ammirazione». Talché la conclusione, folgorante nella sua preveggenza, non può essere che questa: «Abbiamo sostituito la pubblicità alla morale».